DISOBBEDISCO!
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Intro: Colpo Di Maglio
La Ballata Dell’Ardito
Vittoria Mutilata
(XII – IX – MCMXIX) Di Nuovo In Armi!
Tango Della Menade
Sangue Morlacco
Per Non Dormire
Traditi
Fuoco A Fiume
Muri D’Assenzio
Outro: Amor Sola Lex
testi
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IANVA nasce negli ultimi giorni del 2003 su iniziativa
di Mercy (Malombra, Il Segno Del Comando, Helden Rune) e Argento
(Antropofagus, Spite Extreme Wing). Lo spunto viene fornito da
un paio di brani che i due firmano (il primo sotto la denominazione
di Heldenplatz, il secondo attribuito a S.E.W.) per una compilation
underground italiana circolata esclusivamente fra addetti ai lavori.
Il fil rouge delle due composizioni
si originava dalla profonda suggestione esercitata sui musicisti
da alcune letture riguardanti l’epopea dell’Impresa
Fiumana. I brani inclusi nella compilation fotografavano idealmente
un incipit e un epilogo. Da qui la tentazione di tracciare un
lavoro che deve molto alla tradizione italianissima (per diritto
acquisito, se non di primogenitura) del disco concept di filiazione
art-rock di settantiana memoria. E’ la nascita di ‘Disobbedisco!’.
Il filo della vicenda narrata viene fornito, in particolare, da
un misconosciuto libro di memorie pubblicato a proprie spese e
in età avanzata (e rinvenuto dai nostri su un’anonima
bancarella), da un ufficiale a riposo (tale Col. Giovanni Laurago,
classe 1898), dal titolo “Mai Così Colmo Di Vita”.
Qui l’anziano militare ricorda, con accenti talvolta spassosi,
ma molto più spesso vibranti di commozione, i giorni in
cui, coi gradi di giovane tenente del corpo degli Arditi, venne
affiancato in qualità di attendente a uno dei principali
responsabili della sicurezza interna della Libera Repubblica di
Fiume all’indomani dell’Impresa dannunziana.
Quest’ultimo, il Magg. Cesare Renzi, che il narratore conosce
nei giorni della celebre battaglia del Solstizio (allo scoccare
del grande sforzo bellico che condurrà all’epilogo
di Vittorio Veneto nell’autunno del 1918) è, in effetti,
il vero protagonista della vicenda narrata in quelle pagine. Bella
figura di idealista deluso e “colmo di un’amarezza
che aveva finito per scavarne i tratti”, “calmo
come chi è dimentico di sé”, ma sorprendentemente
acuto, e dotato di una temerarietà che, come il lettore
non tarda a scoprire, “scaturiva dal disamore della vita”.
Se il narratore restituisce di sé un’immagine che
i lettori appassionati di autobiografie belliche della Grande
Guerra (da Giovanni Comisso a Carlo Salsa, da Emilio Lussu a Giuseppe
Reina) non faticheranno a riconoscere come famigliare: quella
del giovanissimo ufficiale di complemento che, arruolatosi volontario
sulla scia di ideali patriottici e progressisti (contro l’ineffabile
conservazione incarnata dall’Impero Asburgico) presto, sotto
la straziante suggestione ingenerata dagli orrori della trincea,
approda a un disincantato cinismo, a una sostanziale anarchia
che attende solo il destro per manifestarsi in tutta la sua virulenza,
diverso è il discorso per la figura di cui sceglie di narrare
la storia.
Renzi è un uomo che, malgrado l’origine contadina,
sia pure di famiglia possidente, (“... in cui la silenziosa
asprezza di generazioni di viticultori Elbani si modulava nello
strano contrasto tra un sembiante roccioso e una gentilezza di
modi che s’intuiva come cosa novissima, acquisizione tardiva
di un’effimera stagione di mondanità con cui un giovane
Cesare, primo di tutta la sua razza, aveva rivestito la sua ispida
essenza nei giorni in cui era stato inviato a studiare a Firenze...”),
si rivela colmo di interessi e curiosità, dotato di uno
spiccato istinto per le arti (“... quando si trovava a Parigi
nei giorni delle prime, incendiarie, baruffe futuriste, aveva
conosciuto questo americano che lo aveva introdotto a quella novissima
musica negra della quale, talvolta, affermava di avere gran voglia
di riascoltare...”), e sopratutto dotato di una logica stringente
che poco o nulla concede alla retorica patriottarda che, pure,
informava larga parte dell’impresa a cui aveva scelto di
aderire.
S’intuisce che lo scoppio della guerra lo sorprende nel
pieno di uno spleen le cui cause, o meglio la spiegazione delle
stesse, viene sempre sostanzialmente elusa dal maggiore che, come
il lettore apprende, si arruola volontario senza crederci neanche
un poco (“... vi confesso, tenente, che, fino ad allora,
quantunque ne dicessero peste e corna D’Annunzio e Marinetti,
Nazionalisti e Socialisti, la nostra Storia tutta, io avevo sempre
intimamente guardato con un certo favore all’Impero. Avevo
come il segreto presentimento che, una volta che l’avessimo
tolto di mezzo, del mondo che ci aveva espresso non sarebbe rimasta
traccia e allora, si... allora sarebbe stato il nostro turno...
Vedete, io provengo da una razza che ha sempre diffidato del Futuro...”),
forse in preda a una pulsione di morte che resterà fino
all’ultima pagina (che ha il sapore di una tragica beffa),
il vero motore dell’agire del personaggio.
Chiaramente il suo salire di grado in grado nella scala della
gerarchia militare (e sempre per meriti speciali) da sottotenente
nel 1915 fino a maggiore nei giorni del Solstizio del 1918 è
esclusivamente attribuibile a una temerarietà suicida che
viene interpretata come esemplare abnegazione e che solo la casualità
di una roulette russa su scala continentale dispensa dal ben più
comune esito letale: “... Nel ‘16 il macello era giunto
a un livello tale che il fatto stesso che io sia adesso qui a
parlarvi, signore, basta da solo a spiegare come non sempre il
calcolo delle probabilità si traduce in un risultato appena
lontanamente utile a comprendere la realtà dei fatti...”
Eppure anche lo spleenetico Renzi aderisce all’Impresa Fiumana,
anzi, la sua popolarità presso la truppa fa si che la sua
decisione “di rifilare un bel calcio sui denti a quei bari
dal ventre foderato di seta e di sego” guadagni alla causa
anche una quota consistente di uomini che non avrebbero dovuto
desiderare altro che ritornare ai propri affetti e alla propria
vita di sempre.
Questo, forse, è l’aspetto più emblematico
e, insieme, più sconcertante dell’intera vicenda.
Se i giovanissimi ufficiali, cresciuti nell’alveo di organizzazioni
studentesche sensibili a temi nazionalistici, ma anche ad un certo
sindacalismo rivoluzionario, folgorati dai movimenti artistici
d’avanguardia, tendevano a identificare l’azione come
un’accelerazione del passo verso una sorta di “Altrove
Assoluto” (che l’ésprit dell’epoca sovrapponeva
a quello di un non certo meglio identificato “Futuro”),
larga parte della truppa, perlopiù formata da giovani contadini,
spesso analfabeti e ancora ancorati a una visione del mondo all’insegna
di una sostanziale immutabilità, scelgono di aderire all’impresa
per fascinazione verso figure archetipiche che paiono risorgere,
dopo decenni di Positivismo, dal fuoco della prima linea e dal
fango della trincea.
Sono i nuovi eroi di una saga ad un tempo strapaesana e futuribile
che, inaspettatamente, ritrova gli accenti epici di un linguaggio
ancestrale. Una gerarchia differente, di ordine morale, pare sorgere
da un magma sostanzialmente anti-autoritario. Uomini che hanno
condiviso con la truppa fino all’ultima particola di dolore
divengono, d’un tratto, gli unici referenti possibili, i
centri ordinatori di un mondo non più immutabile, bensì
stravolto, sovvertito fin dalle fondamenta. Renzi si pone come
una sorta di ideale trait d’union tra le due tendenze e,
se da un lato appare in grado di tenere testa allo stesso D’Annunzio
sul terreno di una discussione di ordine idealistico-estetico,
dall’altro si rivela dotato di un senso pratico (che, occorre
dire, era bene non aspettarsi né dal Vate né da
altri “numinosi” al suo seguito) e di una semplicità
di modi che gli valgono la stima dei veterani i quali, “per
ispirito di giustizia”, scelgono di non rientrare nella
vita civile.
Apprendiamo con Laurago che la Fiume occupata acquisisce molto
rapidamente tutte le caratteristiche di una repubblica filibustiera,
una sorta di Tortuga art-déco dedita alla sistematica costruzione
di sogni che, di colpo, possono e debbono essere “qui e
subito”. Un luogo dove viene concepita una bozza di Costituzione
per molti aspetti insuperata a tutt’oggi nella sua arditezza
libertaria, ma anche un luogo dove convergono i più bei
nomi delle avanguardie artistiche internazionali. Un “Porto
dell’Amore” dove anche i rappresentanti della celebre
“Lega Dei Popoli Oppressi” trovano un entusiastico
approdo, dove elementi nazionalisti e bolscevichi, anarchici e
neo-arcaici, futuristi e classicisti apprendono a operare il difficilissimo
miracolo di un sincretismo acrobatico. Apprendiamo come questo
laboratorio a cielo aperto sia osservato con particolare attenzione,
non solo dalle autorità mondiali, ma anche da “altre
autorità” che paiono, di fatto, trascendere le prime.
A queste misteriose autorità obbedisce Elettra Stavros.
La donna, già diva delle serate futuriste e dei café-chantants
più esclusivi alla vigilia dello scoppio del conflitto,
è, in realtà, una spia. Dapprima al servizio della
Russia zarista, poi, dopo la capitolazione di questa, ufficiosamente,
informatrice interalleata. Di fatto, la chanteuse pare riferire
a una ben più trasversale catena di comando per la quale
gli sviluppi dell’Impresa sembrano rivestire un’importanza
primaria. Renzi, il cui acume e la cui scarsa propensione per
lo “spirito di sempiterna baldoria” proprio di molti
suoi compagni d’avventura, fanno si che gli venga affidata
la responsabilità di organizzare e gestire un credibile
servizio di controspionaggio, si ritrova ben presto a doversi
districare tra una serie di misteriosi delitti e l’esigenza
di marcare stretta la misteriosa, affascinante (e, come scopriremo,
talvolta letale) bajadera.
Ma, nel corso di una memorabile serata in cui Elettra si esibisce
al celebre Caffé dell’Hôtel Europa, tra i due
scocca un’attrazione complessa e distruttiva. Apprendiamo
che Elettra, di famiglia peggio che avventuriera (“...
la cui miscela di sangue greco-turco dumeh e veneziano concorreva
a costruire un tipo di donna in cui la sensuale innocenza di millenni
or sono sposava la selvaggia indocilità di generazioni
di pirati e la dimestichezza con l’intrigo propria dei levantini...”),
era stata destinata e addestrata fin dall’infanzia a diventare
ciò che è, ovvero una procacciatrice di segreti
di Stato carpiti in alcova, una sorgente di scandali destinati
a screditare (e spesso a condurre al suicidio) personaggi pubblici
sgraditi ai suoi superiori e, ovviamente, una sorta di free-lance
dell’Intelligence.
Quello che emerge, man mano che la vicenda si dipana, è
che l’indole innata della donna parrebbe vertere a tutt’altra
dimensione morale, tanto che essa si abbandona sovente all’estasi
degli oppiacei e dei cannabinoidi nel vano tentativo di mettere
a tacere “... la donna leale che avrebbe potuto diventare”.
Lasciamo ancora una volta la parola a Laurago: “...
scorrendo la documentazione emergeva un quadro vieppiù
sconcertante: acrobata circense a 14 anni, modella per pittori
celeberrimi a 16, cantante e ballerina a 19, un carnet di “conquiste”
da fare invidia alla Cavalieri... Eppure sempre uscita dal cono
di luce della notorietà un attimo prima che s’alzasse
la buriana che avrebbe affondato l’illustre naviglio di
turno. La cosa aveva del miracoloso, e ora l’autrice di
cotale miracolo era lì, seduta di fronte a noi, in quello
scabro ufficio militare, che attendeva che il maggiore si degnasse
di alzare lo sguardo accigliato dagli incartamenti che la riguardavano
e si decidesse a formulare la prima domanda. Pareva stranamente
a proprio agio e fissava Renzi con ostentata curiosità.
Ricordava una scolara impertinente, ma qualcosa nei suoi occhi
faceva pensare che avesse vissuto millenni...”.
Naturalmente il risvolto “giallo” della vicenda risulta
avvincente proprio in virtù della sotterranea, ma evidentemente
impetuosa, corrente di nera sensualità che l’attraversa.
A questa concorre non solo la caratterizzazione dei due protagonisti
di fatto, connotati come Uomo e Donna “assoluti”,
ma anche le pagine colme di un fervore frenetico, accese di bruciante
vitalismo nel descrivere l’incredibile caleidoscopio di
fermenti, idee e personaggi che animano la vita culturale del
“Porto Dell’Amore” come lo definì Giovanni
Comisso che pure compare quale presenza androgina e arguta, “quasi
da efebico piccolo demone”, come ama ricordarlo Laurago.
A quest’ultimo, in coppia con il leggendario pilota Guido
Keller, viene assegnato il ruolo di protagonista in alcuni episodi
di sapore grottesco che ben descrivono il clima di generale irriverenza,
di “fantasia al potere” e di “una risata vi
seppellirà” con svariati decenni in anticipo su movimenti
che avrebbero dovuto trasformare questi slogan in prassi operativa.
In mezzo a questo groviglio di passioni la figura del Comandante
si staglia nitida e incorrotta, ma ben lontana da quell’evidenza
statuaria che tanta retorica di regime gli accordò in seguito
(non senza averlo prima neutralizzato in via definitiva). Infatti
D’Annunzio vi appare spesso roso dai dubbi rispetto al marcato
interventismo dei giorni del ‘15, inesausto nel mediare
tra le componenti social-rivoluzionarie del suo movimento e quelle
accesamente nazionalistiche, lacerato tra la fascinazione che
esercitano le istanze di alcuni emissari bolscevichi e l’esigenza
di non abdicare a un internazionalismo senza condizioni. Insonne
e inesausto, come larga parte del suo entourage anche grazie all’ausilio
di propellenti chimici, caparbiamente fiducioso nella vitalità
delle avanguardie che imperversano nella sua bizzarra repubblica,
ma, a tratti, perplesso e stanco, quasi che “l’artiglio
della triste vecchiezza lo accarezzasse nell’attesa di ghermirlo”.
La risoluzione dell’enigma che toglie il sonno al magg.
Renzi (unitamente al “tonitruante” sconquasso
testosteronico inflittogli senza colpo ferire dalla sensuale Elettra)
e al suo volenteroso attendente giungerà proprio alla vigilia
dello scadere dell’ultimatum che il governo italiano, in
ossequio al diktat nei nuovi potenti, intima agli irriducibili
fiumani. In queste pagine, fattesi di colpo plumbee, affiora,
insospettato fino ad allora, un Renzi differente, la cui spiccia
risolutezza nel fare giustizia sommaria dei colpevoli non manca
di produrre un profondo turbamento in Laurago. Elettra, collegata
agli assassini da un vincolo contratto dal suo sulfureo pigmalione,
il gallerista Jacoby, con la misteriosa cordata di poteri occulti
che i nostri arrivano appena a scalfire, benché estranea
ai tre omicidi, risulta responsabile, tuttavia, di altri addebiti
che ci riportano ai “Giorni Del Solstizio” del ‘18.
Infatti, come scopre un Renzi ormai in balìa di sentimenti
in rotta di collisione tra di loro, una fuga di notizie riservate
verificatasi alla vigilia dell’offensiva, che aveva provocato
una supplementare carneficina specie tra i reparti degli Arditi
ai suoi ordini, risulta imputabile alla donna. Essa, grazie a
un sagace “lavoro nelle retrovie dello Stato Maggiore”,
aveva perseguito il desiderio dei suoi misteriosi superiori che
“gli Italiani vincessero, ma senza stravincere...”.
A dispetto del fatto che l’Elettra di queste ultime pagine
appaia di colpo come trasfigurata, spogliata di ogni orpello da
Lilith futurista e completamente arrendevole e anelante di sprofondare
nell’abbraccio del “suo Cesare”, Renzi dispone
che venga rinchiusa nell’ex manicomio imperial–regio,
ora adibito a carcere, in attesa di essere giudicata da un tribunale
di guerra. Si, perché nuovamente guerra è: le bombe
iniziano a piovere su quella che era stata la “Città
Di Vita”, bombe lanciate “da fratelli contro altri
fratelli”.
Nel corso di quelle convulse ore che preludono al tristemente
noto “Natale Di Sangue”, Renzi congeda virtualmente
Laurago, diventa silenzioso, beve molto assenzio, trova dell’hascisch
tra gli effetti personali della donna. Ma quando, al colmo di
un’ebbrezza più che mai spleenetica, gli perviene
la notizia della morte di alcuni tra i più giovani, impetuosi
e generosi dei “suoi ragazzi”, il maggiore pare riscuotersi,
richiama l’attendente e gli ordina di aprire le porte del
carcere e di lasciare libera Elettra e gli altri detenuti: “...
Il maggiore, mal rasato e con lo sguardo febbricitante come nei
giorni della battaglia del S. Gabriele quando lo vidi per la prima
volta, pareva perso dietro a qualche strana fantasticheria. Per
chi, come me, era avvezzo al suo ruvido, inscalfibile senso pratico,
che tanto era valso a rincuorarci anche nelle ore più disperate,
questa metamorfosi acquisiva una valenza spiazzante e, in qualche
strano modo, spettrale. Poi, d’un tratto, parve riscuotersi
e l’essenza del solito e, ormai la cosa andava chiarificandosi
in me, caro Renzi tornò a rioccupare il suo sguardo cosicché,
quando parlò, la sua voce era nuovamente ferma e fonda,
senza alcuna patina d’incertezza: - Tenente, vi incarico
di guadagnare il più rapidamente possibile la casa di detenzione
e di procedere personalmente al rilascio di tutti i prigionieri
ivi reclusi. Come avrete certamente compreso, qui - e volse intorno
a sé uno sguardo perplesso - tutto è finito. - Mentre
mi avviavo mi sentii richiamare: - Tenente, mi raccomando... Quella
donna... - poi s’interruppe. Mentre ancora esitavo sulla
soglia in attesa che completasse la sua frase, il maggiore mi
voltò le spalle e prese ad armeggiare per rimettersi cinturone
e spallaccio. Compresi così che la conversazione era finita...“.
Così, mentre Renzi si avvia al suo ultimo appuntamento
con il fuoco, Elettra riguadagna in extremis un’ormai insperata
libertà che, visto il frangente, si configura parimenti
foriera di sciagure: ormai “bruciata” come spia, in
disgrazia presso i suoi potentissimi protettori, con un avvenire
da fuggiasca innanzi a sé, tuttavia attraversa le strade
di Fiume, invase da una folla in preda al panico, alla ricerca
di colui che, nel suo impossibile sogno, dovrebbe portarla al
di là dell’oceano per fare di lei “la sposa
colma d’ogni premura che, in cuor suo, aveva sempre sentito
di dover diventare”. Ma, come tutti gli eroi da saga popolare
che si rispetti, anche Renzi ed Elettra pagano caro il fìo
della loro diversità. Resta solo il tempo di un fugacissimo
incontro, di un bacio carico di premesse destinate a rimanere
inespresse e la promessa di un appuntamento a Trieste da cui “...
un bastimento per l’Argentina avrebbe dovuto portare oltremare
due anime rinate che si sarebbero lasciate dietro dei grigi gusci
gonfi di guerra e pioggia...”. Ovviamente l’ultima
beffa è in agguato. Renzi, che, dopo anni di nausea spirituale
in cui aveva cercato vanamente una “morte rapida e degna”,
sente rinascere in sé “un’ormai del tutto
inattesa primavera le cui efflorescenze affondavano le radici
nel fertile terreno dei sensi” non può, tuttavia,
sottrarsi al suo ultimo appuntamento con l’onore a fianco
dei suoi “ragazzi”. E la morte lo coglie a causa di
“un fuoco d’infilata che la sua alta figura allo
scoperto pareva fatta ad arte per attrarre su di sé”.
Laurago descrive così i momenti che seguono la resa riottosa
degli Arditi ai reparti governativi, cagionata dall’esigenza
di non spargere ulteriore sangue, e il ritrovamento del corpo
del suo (perché tale ormai lo percepisce) amico:
“… Il riservista che comandava il plotone di Marò
che ci sorvegliava si presentò come Cap. Alfredo Chianese
- napoletano, specificò. Aveva l’aria segaligna e
saggia di molti partenopei e si tormentava la punta dei baffetti
nervosamente… Era chiaro che temeva che la situazione degenerasse
e la prospettiva di dover ordinare il fuoco per sedare un nuovo
focolaio di sommossa lo faceva stare sulle spine. Gettò
uno sguardo nervoso ai suoi uomini, reclute imberbi, un paio di
veterani da fureria, pasciuti e bovini. Poi, verosimilmente, misurò
le correnti di agitazione che percorrevano i ranghi disarmati
degli Arditi.
Come di norma, dalle nostre file si levavano i sapidi commenti,
i lazzi, le stoccate feroci nei dialetti di tutti i borghi d’Italia.
Udii chiaramente il Cenci: “O’ guarda un po’
te che bellini! O’ icché credano d’essere con
quelle braghe da pigiama?”... E poi una parlata sicula:
“Cchi minchia di ddomande!! Si’nni fuirono dall’ospizio
‘sti fitusi”... Il Caporale Taddeo Orsolino pose con
fare cerimonioso le mani di fronte alla bocca nella postura di
un trombettiere che si appresti a suonare la Rimembranza, gonfiò
le gote e fece sporgere i globi oculari a guisa dei pupazzi che
si vincono alle fiere, poi fece partire un fragoroso, interminabile,
modulato pernacchio in direzione delle bocche dei fucili spianati.
Il plotone era sempre più nervoso, alcuni ragazzi avevano
la fronte imperlata di sudore, qualcuno teneva il dito talmente
contratto sul grilletto che era possibile scorgere chiaramente
le nocche bianche. Chianese mi supplicava con lo sguardo di evitargli
una nuova, spiacevole seccatura. Mi voltai verso i nostri, cercai
di dare un piglio imperioso all’atto del sollevare il braccio
per imporre il silenzio. “Basta, ora – urlavo - è
un ordine!”. Ma già da più punti dei ranghi
si levavano degli alalà e delle imprecazioni che mi fecero
temere il peggio. Come se non bastasse, il capitano aveva assunto,
da ultimo, un’espressione che, in tale frangente, mi piacque
assai poco: quella di chi è rassegnato a trangugiarne un’altra
di seccatura.
Proprio in quell’istante, dal fondo dell’isolato,
dove era al lavoro la squadra della croce rossa, si levò
una voce; “Qui ce n’è un altro! E’ un
ufficiale!”. Ammutolimmo. I Marò del plotone parvero
scambiarsi un tentativo di occhiata interrogativa, pur senza cavarci
gli occhi di dosso. Chianese esitò appena un istante, poi
si decise. Venne verso di me e mi si mise di fronte, poi scandì
con aria stanca: “Tenente, abbiate la bontà di seguirmi...”...
Guadagnammo rapidamente il delimitare del cumulo di macerie che
aveva sbarrato l’accesso alla via. Gli uomini della squadra
avevano sospeso il lavoro e avevano formato un silenzioso capannello.
“Lei comprende - disse Chianese - tanto prima si possono
lavare via certe macchie, tanto più il corno resta tra
le pareti di casa...”. Capivo sin troppo bene: il pover’uomo
temeva che si trattasse di qualche ufficiale di prestigio e si
preoccupava di assicurarsi la mia collaborazione per evitare che
la voce si propagasse lì per lì. Non aveva torto,
mi dissi, altre tensioni equivalevano ad altri cadaveri. Non era
più cosa. Il sogno era finito.
Poi lo vidi. L’uomo che ci aveva guidato nell’ultimo,
disperato assalto a quota 22 del San Gabriele in un’alba
settembrina, cantando una canzonaccia aspra imparata nell’angiporto,
l’uomo che festeggiava ogni nuova alba in trincea accendendo
una sigaretta augurandosi, forse, un pietoso cecchino, quell’uomo
dalle sette vite giaceva prono con un espressione di divertito
disgusto stampata sul viso. Era la stessa espressione che lo illuminava
quando la sua perspicacia lo metteva nella condizione di trovare
la prova stringente che incastrasse lo spione o il malfattore
di turno. Adesso l’avrebbe conservata per l’eternità.
“E’ così, dunque? - sembrava chiedersi - Lo
supponevo!”.
I calcinacci che lo avevano coperto avevano lasciato lungo la
sua persona, sul panno della divisa, sui capelli, una sorta di
infarinatura che rendeva, per contrasto, gli schizzi e la pozza
di sangue bruno e semirappreso sotto la nuca, se possibile, ancora
più orrida. Al tempo stesso la scena aveva qualcosa di
circense e pagliaccesco: il cattivo genio di Renzi fissato nell’istantanea
di un giullare insanguinato.
Guardando il viso del mio povero amico, tutto impolverato e brutto
di sangue, non potei fare a meno di ripensare a quella notte all’Hôtel
Europa, a Lei che con il fazzolettino di pizzo gli detergeva il
sudore dal viso contratto ed indignato, all’aria compunta
di chi misura la propria onnipotenza e la risatina giocosa che
gli fece sul muso, come quella di un fanciullo che ha appena combinato
una marachella ben riuscita. Ora che avrebbe fatto? Che espressione
avrebbe tenuto questa volta nell’atto di nettargli il viso?
Quali cataratte di pianto trattenuto e ricacciato per lustri avrebbe
versato su quelle mani tumefatte che qualcuno aveva già,
pietosamente, congiunto?
Povera, povera ragazza! Apoteosi di ogni paradosso di quella nostra
stagione di amore e follia. Musa Futurista portando in scena un
rituale arcaico! Dispensatrice di sciagura suo malgrado, nata
per l’Arte o per far felice un Uomo, ma da lombi scellerati
che avevano per lei tracciato un destino parimenti scellerato.
Tutta l’incredibile vicenda che avevamo vissuto mi appariva,
ora, sotto una diversa prospettiva. Non potevo dimenticare l’abissale
amarezza di Lei mentre rendeva la sua confessione e l’aria
finalmente appagata di Renzi mentre mi informava di aver profittato
dello scompiglio per ammazzare come un cane l’uomo più
simile a un vero padre che lei avesse mai avuto. Lei non lo avrebbe
mai saputo e lo avrebbe atteso a Trieste giorno dopo giorno, sempre
più disperatamente.
Chi era alla fine il giusto e chi l’infame? Chi l’adamantino
e chi il corrotto? Eppure quell’uomo che ora si era mutato
in cosa, lì, ai miei piedi, era stato anche il miglior
ufficiale che avessi conosciuto. Mi andavo chiedendo cosa ne sarebbe
stato di loro se le cose fossero andate diversamente. Se Renzi
fosse riuscito a ritrovare a Trieste la sua Elettra. Lei, come
agente, era bruciata e avrebbe avuto ai calcagni ben tre servizi
segreti; e lui avrebbe, prima o poi, dovuto rendere conto della
liberazione di una spia reo confessa, dell’esecuzione sommaria
di quell’infame dott. Kramer e dell’omicidio, perché
tale era stato, del gallerista Jacoby. Forse un cargo per l’Argentina
li avrebbe portati al sicuro, ma chi può dire se, nella
lunga teoria di giorni che avrebbero condiviso, non sarebbero
affiorati silenzi e paure. Lo scrutare preoccupato di Lei, delle
piccole, impercettibili variazioni di atteggiamento in lui che
le consentissero di vedere sorgere una temuta sfumatura di risentimento
o disprezzo per i lutti che aveva contribuito a farci patire.
Che dire di quelle arti da alcova che lo avrebbero fatto felice
fino all’estasi di notte per poi riempirlo di segreti rovelli
di giorno? Forse sarebbe continuata così finché
l’età non avesse reso impensabile ogni residuo ardore
o, forse, i due avrebbe posto solo le basi per un diverso, ma
parimenti tragico destino. Ma così non era, il maggiore
era lì, tra calcinacci, travi crollate e detriti e, come
spesso mi aveva ripetuto, era solo. Chianese era impressionato:
“Che espressione – commentò - pare che siamo
noi i morti e lui quello che ha salvato la pelle!”... Non
resistetti e voltandomi in direzione dei nostri ranghi simulando
l’atto di sguainare un pugnale che non avevo più
proruppi: “MAGGIORE RENZI!!”. E immediata si levò
la risposta di sessanta voci: “PRESENTE!”…”.
Fiume capitola. Qui finisce la nostra storia. Qui si conclude
‘Disobbedisco!’. Quanto accadde e si verificò
dopo non ricopre il nostro interesse.
Ma che ne è stato di coloro che vissero la splendida follia
di quei giorni?
Laurago, dopo aver affrontato il tribunale militare al pari di
molti ribelli fiumani, usufruì dell’indulto che venne
loro accordato e reintegrato nei ranghi dell’esercito con
il suo grado. Parteciperà sia alla guerra civile spagnola
sia alla campagna etiopica guadagnando gradi e prestigio. Ma lo
scoppio del secondo conflitto mondiale lo coglie già in
preda a profondi ripensamenti rispetto al regime che pure aveva
convintamente servito. A questo concorre principalmente il promulgamento
delle leggi razziali che egli, avendo avuto al fianco molti compagni
fiumani di famiglia israelita, disapprova apertamente. Ciononostante
combatte in Cirenaica con il grado di tenente colonnello, e suoi
reparti si distinguono per tenacia e valore. Catturato dagli Inglesi
e inviato ad Aberdeen come prigioniero, vi conosce una giovane
vedova di guerra che lo seguirà in Italia dopo la fine
del conflitto per diventare sua moglie. Conclude la sua carriera
nell’esercito nel 1952 ritirandosi in quiescenza con il
grado di colonnello. Si dedicherà, forse in virtù
delle esperienze vissute durante la giovinezza a fianco del magg.
Renzi, alla consulenza privata per varie agenzie investigative
e sarà ripetutamente eletto quale membro dell’amministrazione
locale del suo comune di residenza nelle file del Partito Socialista.
Nel 1966 pubblica a proprie spese il suo memorandum. Dopo una
lunga vecchiaia tranquilla si spegne a Rapallo nel dicembre del
1985.
Elettra Stavros, il cui vero nome era Eleni Koronios, dopo aver
appreso della morte di Renzi si darà a una vita errabonda,
tenuta d’occhio dai vari servizi segreti che, vistane la
rapida deriva, ne assecondano discretamente l’autodistruzione.
Il mutamento dei tempi accelera l’offuscarsi della sua stella
e l’aggravarsi della sua tossicodipendenza la portano ad
accettare ingaggi sempre più squallidi e umilianti. Il
lento suicidio di colei che fu una delle donne più bramate
d’Europa arriva al suo epilogo in una gelida alba del dicembre
1928 ad Amburgo dove, minata nel fisico e dimenticata da tutti,
è finita a cantare nelle bettole del porto. Poco influì
il fatto che fosse approdata a un brividoso repertorio di tango
funereo nonché dei seminali standard jazz che, primi, guadagnavano
il favore del pubblico “basso” in Europa. Il suo destino
era segnato. Uno shot eccessivo (e probabilmente volontario) di
morfina la consegna all’agognata pace nella livida cornice
di una camera d’albergo di infima categoria.
Il magg. Cesare Renzi venne seppellito a Fiume a fianco di molti
dei suoi compagni d’arme. Una lapide con annesso altorilievo
in ardesia venne eseguita da un suo ex commilitone e posizionata
sulle sua tomba un paio d’anni dopo gli eventi narrati.
Durante i giorni della presa di potere dei Titini, nel 1945, la
tomba verrà devastata. In seguito le autorità predisporranno
un anonimo ripristino. Oggi non ne è rimasto quasi nulla.
Di altri protagonisti della vicenda, da Gabriele D’Annunzio
a Giovanni Comisso, da Guido Keller a Guglielmo Marconi, da Elisa
Baccara a Mario Carli, le sorti sono note.
IANVA ringrazia gli eredi di Giovanni Laurago per la pazienza,
la cortesia e la simpatia accordateci.
L’imperativo resta solo uno. Ora e sempre: DISOBBEDIRE!
(Genova – 2003/2005)
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